Rembrandt, Ritorno del figliol prodigo, 1668, olio su tela, Museo dellHermitage, San Pietroburgo


Sprofondato ripetutamente nell’abisso della disperazione e del peccato, Rembrandt dipinse questa tela quandera ormai in età avanzata e le corde del suo cuore stavano per confrontarsi con un altro abisso mozzafiato: quello della misericordia del Padre. Non a caso Van Gogh commenterà l’opera con la celebre frase: “Si può dipingere un quadro così solo dopo essere morti tante volte”. In uno spazio dove predomina la tonalità monocromatica del marrone e dove non distinguiamo nettamente le figure in secondo piano, il “non finito” dei contorni fa da cassa di risonanza al sentimento dell’osservatore che si identifica col figlio pentito, la cui nuca è alla 

stessa sua altezza. Qui si concentra la luce andando a sfumare verso destra dove la figura del fratello del figliol prodigo si staglia glaciale e impassibile. Il suo sguardo impietrito è diametralmente opposto a quello del Padre, quasi cieco, consumato dal pianto eppure di estrema dolcezza. Ma il nucleo centrale del dipinto sono le mani posate sulla schiena del figlio: una femminile, l’altra maschile. La mano sinistra è forte e muscolosa, stringe con energia maschile. La destra è raffinata, le dita sono ravvicinate ed eleganti, è appoggiata delicatamente, vuole accarezzare, offrire conforto e consolazione femminile. Dio è padre e madre. Il figlio ritorna nel grembo della misericordia materna divina: la testa è liscia come quella di un bambino piccolo e poggia sul ventre paterno. Il ritorno è una nuova nascita. La spada appesa alla sua cintura è l'unico simbolo della dignità che, perduta, è ora riconquistata.